E’ con immenso piacere che ho avuto modo di fare una lunga chiacchierata con il mio caro amico Alessandro Bigarelli, psicologo e Counselor ad orientamento umanistico-relazionale, nonché docente universitario di Lingua e Lettereatura Tedesca e Italiana. Abbiamo affrontato assieme un argomento di cui, forse per vergogna o timidezza, se ne parla ancora poco:
universi emozionali del pianto nel maschio adulto
Da tempo ormai il pianto non è più monopolio femminile. E’ vero che le donne tendono a piangere di più, e più spesso, degli uomini, ma l’educazione familiare, il contesto storico-politico e le aspettative culturali dimostrano di avere un ruolo fondamentale sulla frequenza e sull’intensità del pianto in entrambi i sessi. Sia le donne che gli uomini tendono a considerare il pianto un’espressione comportamentale tipicamente femminile molto più di quanto non lo sia nei fatti. E’ pensiero comune che il pianto di una donna venga più facilmente tollerato di quello di un uomo; ma se questo corrisponde al vero, è altresì un fatto accertato che il pianto maschile risulti oggi meno inaccettabile o più dignitoso di quanto si creda. Quando un uomo piange, riversa nelle lacrime l’emozione di sentirsi vulnerabile e pauroso, cosa assolutamente da evitare fino a qualche decennio fa. La donna, per contro, piange spesso per rabbia. Nella cultura occidentale (ma non solo) chi piange tende ad essere visto come un perdente, perciò si insegna ai bambini maschi a trattenere o rimandare le lacrime riservandole a occasioni intime e private. Piangere in pubblico farebbe apparire l’adulto maschio un essere impotente e indifeso come un bambino o una donna.
Un soldato non piange, così, per estensione, un uomo non deve piangere anche se arrabbiato. Ma nel pianto di rabbia la sofferenza esprime non la rabbia in sé bensì quella del senso di impotenza al bisogno di manifestare la rabbia stessa. E questo capita anche ai maschi. E’ comunque pur vero che il pianto di rabbia sia più frequente tra le donne che tra gli uomini. Le donne hanno meno dimestichezza con comportamenti violenti e conflittuali, e trovando una certa difficoltà ad esprimere ostilità diretta, sono più inclini al pianto. [Il fenomeno delle baby-gang al femminile e il conseguente bullismo tra ragazze sta modificando tangibilmente questo dato]. Insomma, quando predomina il senso di impotenza per non riuscire ad esprimere la rabbia, quando predomina la rinuncia a opporre resistenza e a contrattaccare, ovvero quando la rabbia viene trattenuta e non espressa, ecco che esplode il pianto, cosa che accade anche nei maschi.
La causa che sta alla base del pianto è la percezione di impotenza che implica sempre una qualche frustrazione e sofferenza. Si piange per chiedere aiuto, ma anche per protestare o accusare. Si piange di dolore, per la perdita di una persona cara (lutto e abbandono), per un fallimento, un conflitto, una delusione, perché ci si sente in colpa, per scoraggiamento. Ma si può piangere anche di gioia, sollievo, soddisfazione, per esultanza. Si diceva della percezione di impotenza alla base del pianto. Quando il dolore fisico, ad esempio, risulta insopportabile e anche il macho più testardo non riesce ad opporgli resistenza (a combatterlo, ridurlo o sopprimerlo), ecco che scoppia il pianto. Se la minaccia di un fallimento può indurre a senso di impotenza e pianto (lo studente ansioso e in crisi), a maggior ragione il fallimento scoraggiante, quella sensazione che il tentativo messo in atto per raggiungere uno scopo è fallito, induce al pianto, perché l’individuo prova la paura di sentirsi vulnerabile. Il gradino successivo, forse anche più manifesto, è quello della frustrazione, come si vede bene nei tifosi di uno sport (e in parte anche negli atleti stessi) e nei manager della finanza. Si ha frustrazione quando lo scopo perseguito è compromesso o mancato. La frustrazione provoca maggiore sofferenza rispetto al fallimento sia per lo spreco di risorse e impegno profusi, sia per la maggiore delusione delle aspettative (positive) riposte nell’impresa. Lo scoraggiamento qui è tale che fa vacillare l’autostima e provoca la straniante sensazione di inefficacia e inefficienza.
Che il pianto sia una manifestazione di debolezza, quindi da ascrivere come etichetta o peggio ancora come stigma al sesso debole, è convinzione che non regge più, o quanto meno da sfatare. Anche i maschi piangono davanti a una situazione tragica o a una scena drammatica, seduti nella sala di un cinema o sul divano di casa alla tv. E’ il cosiddetto pianto empatico che conclude il processo sottostante al coinvolgimento empatico. Il pianto empatico insorge quando la persona si identifica con l’altro, con la vittima o con l’eroe in difficoltà, e mettendosi nei suoi panni prova un profondo stato di impotenza e contemporaneamente avverte la totale incapacità a rimediare la situazione (cui sta assistendo). Frustrazione e sofferenza, tenute dapprima a freno (resistenza), cedono di schianto all’emozione (resa) e la tensione si scioglie in pianto. Piangere con e per un’altra persona (personaggio filmico o televisivo, dove immagine e musica contribuiscono ad accrescere la tensione emotiva) esprime con grande efficacia la condivisione dei sentimenti, la vicinanza e la solidarietà con l’altro. E di questo son capaci anche gli uomini, lo son sempre stati e non lo nascondono più, e si sentono finalmente autorizzati a piangere. Da non sottovalutare che il pianto non rafforza solo la percezione di impotenza ma ha anche un effetto paradossalmente contrario: piangere non riduce l’intensità delle emozioni in gioco, talvolta aumenta e acuisce quell’intensità. Così come esiste l’empatia per la sofferenza altrui, esiste anche il pianto empatico di gioia.
Il pianto di gioia, tipico nel coinvolgimento sportivo e nelle forti amicizie, avviene in contesti complessi (spesso collettivi e di massa ma non necessariamente), implica uno stato emotivo e cognitivo particolare che include l’esistenza di una precedente preoccupazione e il conseguente sollievo finale: quando le vicissitudini dell’altro (eroe, vittima, squadra del cuore e così via) hanno al fine un esito positivo, la persona che ha condiviso la sua (ansiosa) preoccupazione e le sue (presunte) sofferenze inclusi gli sforzi di resistenza (non arrendersi e cedere all’emozione eccessiva), si sente improvvisamente sollevata e scoppia in lacrime. In tutto questo, quando si ha a che fare con l’empatia, gioca un ruolo molto importante il ricordo o meglio la rievocazione-ricostruzione retrospettiva del proprio dolore, oppure delle proprie gioie trascorse. Il pianto empatico, infatti, può accrescere sofferenza o gioia proprio a causa del suo potere evocativo: orientando l’attenzione sui sentimenti e favorendo la rievocazione di fatti e persone ad essi associati, il pianto ha il potere di rafforzare e far rivivere emozioni e ricordi sia negativi sia positivi.
Un ulteriore uso comunicativo del pianto è il pianto colpevole o di colpa, strettamente collegato al rammarico di non essere in grado di cancellare il senso di colpa e di riparare al male commesso. Più che pentimento questo pianto dichiara la volontà di accettare la punizione sottomettendosi alla norma infranta ma al contempo chiede clemenza per non aver saputo controllare la propria condotta. Difficile affermare se il pianto colpevole sia prerogativa degli uomini e non piuttosto delle donne. Si può solo osservare che l’espressione di emozioni forti quali vergogna, imbarazzo e colpa tende a ridurre i rischi di rifiuto e aggressione sociale.
“Alessandro, si conclude qui questa nostra piacevolissima chiacchierata e aggiungerei comunque una citazione di Jim Morrison. che dobbiamo sempre tenere presente …
“Non piangere per chi non merita il tuo sorriso ”