Il bullismo segna, non insegna!

Antefatto

Mi affrettai a parcheggiare l’auto nel solito parcheggio vicino al centro. Era il mio parcheggio preferito perché era custodito da Gianni un simpaticissimo signore con una lieve forma di paraplegia. Il suo sorriso trasmetteva un’allegria vera e sana che scaldava il cuore e ogni volta che lo vedevo l’emozione era sempre la stessa.

Ero leggermente in ritardo per l’appuntamento previsto per le 14:30 al “Caffè delle Fontane” di fronte al Teatro Municipale di Reggio Emilia.  Arrivai un po’ affannato per la corsa: non mi piaceva essere in ritardo. Filippo mi stava già aspettando seduto al tavolino. Mi avvicinai e lo salutai con gioia.

  • Ciao Phil, posso chiamarti così?
  • Raramente mi chiamano Filippo, anche se questo è il mio vero nome. Nessun problema.
  • Sono veramente onorato del fatto che tu mi abbia voluto raccontare la tua storia.
  • Grazie a te! Figurati! Seguo da tempo il tuo blog, ho anche letto il tuo libro “L’Adulta Giovinezza”. Mi ha coinvolto molto la tua sincerità nel metterti a nudo e così ho pensato che avresti potuto raccogliere la mia testimonianza. Son cose avvenute molto tempo fa ma sono sempre di grande attualità.  
  • Io ordinerei le due birre, che ne dici?
  • Assolutamente sì.

Filippo era un bell’uomo moro, dall’aspetto giovanile vestito molto elegante che lavorava all’Ufficio Titoli di una nota banca in centro. La sua storia mi incuriosiva molto. Credo che parlare di questi avvenimenti sia l’unico modo per sconfiggere questa vile omertà che potrebbe colpire i nostri figli, i nostri nipoti o i nostri amici. 

  • Phil, quello che mi hai accennato risale agli inizi degli anni 80. Oggi sei ormai adulto, ma posso capire quanto ti abbia segnato questa storia successa in età adolescenziale!  Mi hai accennato a quella scuola della provincia torinese. Hai avuto modo di ritornarci in seguito in quella scuola media?

Phil non ebbe alcun timore a cominciare il suo racconto e da quel momento le sue parole iniziarono a fluire come un fiume in piena. Lui riuniva in sé un grande controllo e una straordinaria dignità, ma sotto si avvertiva molta sofferenza.

  • Io si. Ci sono tornato diversi anni fa. E al solo entrare in quel cortile mi sembrava di sentire quelle voci. Mi sembrava che tutti mi stessero guardando. Percepivo sguardi attorno da me. Sguardi che osservavano l’umiliazione a cui ero sottoposto. Risento ancora oggi paura, paura e vergogna.  Sembra impossibile che a distanza di così tanti anni ci sia ancora così tanto timore. 

Sono entrato. Ho osservato le mura della scuola, il cortile asfaltato, le porte. Ho guardato attorno e non capivo: vedevo persone, sentivo voci, ma non c’era nessuno. Eppure rieccole quelle voci attorno a me. Il mio nome storpiato. Gli epiteti offensivi. Mi sembrava di veder spuntare da dietro l’angolo i soliti tormentatori e le solite tormentatrici.  Sai, è la prima volta che ne parlo così apertamente senza la paura di essere giudicato. Negli anni a seguire ho affrontato questa problematica molte volte con psicologi, ma li ho sempre visti come dottori, con l’unico intento di curare una “difficoltà”. E adesso nel ripercorrere quelle vicende, avverto come un brivido al petto. Mi sembra di rivedere uno dei gruppi, capeggiato dalla solita figura. Eccolo spuntare da dietro l’angolo e dirigersi verso di me. E io immobile, incapace di reagire. Come ammutolito e ipnotizzato. Incapace di andar via.

  • E come ti difendevi?
  • Mi nascondevo. Durante quella terribile mezzora in cui per due anni tutti i giorni dovevo aspettare il pulmino che mi riportasse a casa, avevo deciso di stare dentro l’edificio scolastico, al riparo dagli Altri.  Gli Altri. Non ho mai capito perché io attirassi così le loro angherie. Avrei voluto annullarmi e invece ero come il miele che attira le api. E puntualmente le api arrivavano a tormentarmi. Già durante il primo anno di scuola media avevo capito che per salvarmi avrei dovuto adottare tutte le strategie possibili e così la mia mente cominciò presto a cercare soluzioni. Una di queste consisteva nel passare i compiti.  Tu non hai idea di quanti compiti io abbia fatto copiare. 🙂 Quando capivo che qualcuno poteva diventare un potenziale aguzzino io gli passavo i compiti.  Almeno riuscivo ad arginare qualche attacco. Passavo i compiti appena me li chiedevano. A scuola ero molto bravo e quindi mi servivo anche di questa arma di difesa. In parte ha funzionato. In guerra bisogna salvarsi. E io avevo solo 11 anni. E solo il mio cervello su cui contare. Comunque era un bel cervello 😊
  • Ma a casa non ne hai parlato?
  • Se ne ho parlato a casa? Ma scherzi? Un ragazzino preso in giro in quel modo, si sente ridicolo, si vergogna. Avverte l’umiliazione. E non può parlarne con nessuno. Anzi minimizza e nasconde. Più è doloroso l’evento e più lo si tende a nascondere. Il problema era mio ed io ero la causa di tutto ciò, ero io il diverso. Per lo meno così mi sentivo! Purtroppo è un meccanismo su cui, credo, incidano molto anche la fragilità o la sensibilità di ciascuno di noi. Io comunque non ne ho mai parlato. Era troppa la vergogna. E soprattutto davanti ai compagni fingevo di non sentire alcun fastidio. Ma Dio solo sa quante volte dovevo trattenere le lacrime e a casa fingere che fosse tutto a posto. Due anni davvero duri. E il segno lo hanno lasciato.
  • Gli insegnanti, i professori? Possibile che nessuno abbia mai fatto qualcosa?
  • Credo che un giorno in cui ero stato assente ne abbiano parlato alla classe perché il giorno dopo c’era un clima di rispetto attorno a me. Ma io mi vergognavo lo stesso. Le mie umiliazioni erano state portate allo scoperto. Non funzionò comunque molto. E presto tutto ripartì come prima. I tormenti erano comunque di tipo psicologico. Mai fisico. Nessuno ha mai alzato un dito. Però a livello morale e psicologico era uno stillicidio. Per molti anni poi ho cominciato a uscire poco di casa e a buttarmi nello studio. La scuola mi ha salvato: questo è una certezza. Ha dato un senso alla mia vita.
  • Sento comunque in te ancora un grande disagio nel parlare di certe cose. Possiamo smettere se vuoi. Mi basta questo tua testimonianza e per questo ti ringrazio infinitamente.
  • Infatti basta. Penso sia abbastanza per oggi… Quei ricordi sono ancora dolorosi e penso che in parte ci conviverò per sempre. Sai, negli ultimi decenni questo fenomeno ha avuto finalmente un nome. Si chiama bullismo. Per affrontare un demone bisogna dargli un nome e per fortuna adesso questa violenza ha un nome.  Quello che fa più effetto è che a essere capaci di azioni così dure siano proprio ragazzini coetanei. Magari quegli stessi ragazzini con cui fino all’anno prima si giocava e si scherzava.  E così per loro tu diventi un divertimento. Si divertono a imitare le tue difficoltà, ad umiliarti, a ricordarti un handicap. Ti storpiano il nome, ti danno appellativi offensivi. Diventi il balbuziente, lo stordito, il frocio…. Loro agiscono sempre in branco, e ridono. Si sentono forti in quelle risate e in quegli attacchi. E pianificano. Pianificano l’attacco. Ti cercano. Aspettano il momento. 
  • Oggi a distanza di tempo cosa provi nei loro confronti?
  • Nulla. So che se si fossero resi conto del male che mi facevano, non lo avrebbero fatto. Forse solo una o due persone mi odiavano a tal punto che godevano nell’umiliarmi, ma non ho mai capito il perché. Ora nella scuola e negli ambienti educativi tutti si riempiono la bocca di questo fenomeno, ma la strada da fare è ancora molta e credo che sia necessario tenere sempre alta la guardia soprattutto per difendere quei ragazzini e quelle ragazzine che forse sono emotivamente più fragili. Se aspetti che sia il “bullato” a venire a chiedere aiuto, hai fallito in partenza.  Ho approfondito molto in questi anni le dinamiche che ci sono dietro questi comportamenti, magari un giorno potremo parlarne, ma questa è … un’altra storia.

Martin Luther King diceva: “Ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi,  è l’indifferenza dei buoni”.

Ma anche in tempi più recenti lo stesso Mika ha detto qualcosa di forte e allo stesso tempo tenace come solo la speranza di un mondo migliore può essere: “Ero la vittima preferita dei bulli. Vestivo strano, ero dislessico e molto timido. Facevo di tutto per essere popolare, ma non funzionava […]. Mia madre era molto preoccupata in quel periodo, mi diceva: “O finisci in galera o diventi molto speciale”.

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